Prevenzione muscolo-scheletrica: leggere il corpo prima che parli!
- 4 apr
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Nel campo della salute, la prevenzione è spesso considerata la strategia migliore per evitare l’insorgenza di patologie. Tuttavia, nel tentativo di anticipare ogni possibile rischio, si è diffusa una cultura preventiva che, più che educare all’ascolto del corpo, finisce per alimentare una visione ipercontrollata e ansiogena. Screening di massa, trattamenti standardizzati, integratori assunti in assenza di indicazioni specifiche, esercizi correttivi prescritti senza una reale base clinica: molti interventi vengono proposti in modo generalizzato, senza una valutazione del bisogno individuale.
Questa tendenza è particolarmente evidente nel trattamento dei disturbi muscolo-scheletrici, una delle principali cause di dolore cronico e limitazione funzionale a livello globale. L’approccio dominante si concentra spesso sulla correzione di asimmetrie, rigidità o posture considerate “imperfette”, come se ogni deviazione dalla norma fosse patologica. In realtà, il corpo è un sistema dinamico e adattabile, in grado di mantenere la funzione anche in presenza di variazioni strutturali. Forzare un cambiamento senza aver compreso il contesto in cui il corpo si è riorganizzato può risultare non solo inefficace, ma talvolta dannoso.
Ciò che serve è un cambio di paradigma: una prevenzione fondata su osservazione intelligente e personalizzata, capace di distinguere ciò che richiede un intervento da ciò che può essere monitorato nel tempo. Non tutto va corretto, ma tutto può e deve essere osservato.
È proprio in questa direzione che si inserisce il lavoro che porto avanti da oltre dieci anni, insieme al mio gruppo di ricerca, con l’obiettivo di trasformare la valutazione manuale in uno strumento clinico predittivo, e non solo descrittivo. Il cuore di questo approccio è l’idea che la prevenzione non debba limitarsi al riconoscimento dei sintomi, ma debba saper leggere l’organizzazione funzionale del corpo nel tempo, osservando come le disfunzioni si distribuiscono e si propagano all’interno di un sistema connesso.
A questo scopo, ci basiamo su aNETomy, una rete anatomica che rappresenta le relazioni funzionali tra le parti del corpo. Su questa rete studiamo la diffusione delle disfunzioni tissutali secondo un modello che abbiamo definito Progressive Tensional Forces (PTF), il quale descrive come le tensioni si sviluppano e si trasmettono lungo le connessioni anatomiche, influenzando il comportamento globale del sistema. Per rilevare le alterazioni, ci avvaliamo del modello TART (Tissue Texture, Asymmetry, Restriction, Tenderness), utilizzato non come struttura teorica ma come metodo palpatorio, utile a mappare le zone di maggiore densità e tensione.
Questa prospettiva ha dato origine a uno studio osservazionale, attualmente in fase di pre-pubblicazione, in cui abbiamo analizzato la relazione tra la propagazione delle disfunzioni lungo la rete aNETomy e la percezione soggettiva del dolore, misurata tramite VAS (Visual Analogue Scale). I risultati hanno mostrato che non è la presenza isolata di una disfunzione a determinare il rischio clinico, ma la sua estensione, il suo posizionamento e la sua coerenza con traiettorie tensionali specifiche. In altri termini, è la configurazione topologica del disturbo all’interno della rete a fornire una chiave predittiva, utile a distinguere tra pattern stabili e pattern che tendono a cronicizzarsi.
Attraverso l’osservazione di queste dinamiche nei moduli anatomici, è stato possibile individuare schemi di propagazione associati a un maggiore rischio di cronicizzazione. Il dato chiave non è la singola disfunzione, ma il modo in cui si distribuisce nel sistema. Da questi pattern emerge la possibilità di costruire un modello preventivo mirato, in grado di indirizzare gli interventi verso chi ne ha realmente bisogno e di riservare il monitoraggio ai casi in cui il corpo si sta già adattando in modo funzionale.
In quest’ottica, l’osservazione periodica assume un ruolo centrale. Non si tratta di controlli episodici o routinari, ma di momenti clinici programmati per leggere l’evoluzione del sistema corpo. Nella mia pratica, consiglio nella maggior parte dei casi un follow-up ogni 3-6 mesi, intervallo che consente di valutare l’andamento dei pattern disfunzionali, individuare segnali di stress o perdita di adattamento e decidere se e come intervenire. È un principio di continuità terapeutica che non dipende dalla frequenza del trattamento, ma dalla qualità della valutazione e dalla coerenza dell’intenzione preventiva.
Questo approccio si integra naturalmente con una visione moderna dell’anti-aging muscolo-scheletrico, secondo la quale la longevità corporea non si ottiene eliminando ogni compenso, ma potenziando la capacità del corpo di adattarsi nel tempo ai cambiamenti interni ed esterni. L’invecchiamento, in questa prospettiva, non è un decadimento da contrastare, ma una trasformazione da accompagnare con strategie cliniche intelligenti.
In conclusione, la prevenzione muscolo-scheletrica, per essere davvero efficace, deve essere misurabile, predittiva, ciclica e personalizzata. Non esiste un corpo ideale da inseguire, ma una traiettoria funzionale da osservare e accompagnare. Quando l’osservazione diventa sistematica e guidata da parametri oggettivi, la prevenzione smette di essere un’azione generica e diventa una cura anticipata, sostenibile e rispettosa della fisiologia del paziente.
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